Ammetto che quando ho visto il trailer del film con Lundini e Castellitto ho pensato che la legge protagonista della storia fosse inventata e che i due fossero proiettati in un futuro distopico. Invece, ne “Il più bel secolo della mia vita” viene denunciata la cosiddetta “Legge dei cent’anni”, attualmente vigente in Italia, secondo cui i bambini non riconosciuti non hanno il diritto il conoscere le proprie origini se non al compimento del cent’anni.
Una regola che fa sorridere (amaramente) se si pensa che l’età media di un italiano senza distinzione di genere, stando ai dati, è pari a a 82,4 anni (dati Istat 2021).
L’art. 28 della legge n. 184 del 1983 prevede che l’adottato, al compimento dei 25 anni di età, possa accedere alle informazioni relative ai suoi genitori biologici (comma 5). Tale possibilità gli è, invece, preclusa ove la madre si sia avvalsa del cd. parto anonimo ai sensi dell’art. 30 del DPR 396/2000, chiedendo cioè di non essere nominata negli atti di stato civile (comma 7); né sussiste per l’adottato la possibilità di verificare la permanenza o meno della volontà materna di rimanere nell’anonimato.
Norma di chiusura, il vigente art. 93 del Codice della privacy (D.Lgs 196/2003) prevede il decorso di almeno 100 anni perché si possa aver accesso al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica contenenti i dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata.
Fonte – Documenti Camera dei Deputati
Una legge contro i diritti
La legge impedisce ad almeno 400 mila figli di conoscere le proprie origini e quindi di poter prevenire patologie ereditarie, questo viene specificato a fine film insieme al fatto che l’Europa condanna tale legge come avversa ai diritti dell’essere umano.
La Corte Costituzionale con la sentenza 22 novembre 2013, n. 278, ha dichiarato l’incostituzionalità parziale del comma 7 dell’articolo 28 della legge 184 del 1983 per contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione. L’illegittimità della disposizione riguarda la parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di conoscere le proprie informazioni biologiche, di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del D.P.R. 396/2000, ai fini di una eventuale revoca dell’anonimato.
Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare con la sentenza Godelli del 25 settembre 2012, è intervenuta in materia, rilevando in particolare, sempre con riferimento all’articolo 28, comma 7, della legge 184, che “la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa. In assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto della ricorrente a conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a mantenere l’anonimato, viene inevitabilmente data una preferenza incondizionata a questi ultimi”.
Cent’anni di solitudine (?) per la privacy
La legge 196/2003 se capisco bene, si muove nell’ambito della protezione dei dati personali: quindi dovrebbe essere stata pensata per tutelare la privacy di una madre che vuole avvalersi del diritto del parto in anonimato. Come spiega il Ministero della Salute:
La donna che non riconosce e il neonato sono i due soggetti che la legge deve tutelare, intesi come persone distinte, ognuno con specifici diritti. La legge consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”.
E prosegue:
L’immediata segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni della situazione di abbandono del neonato non riconosciuto, permette l’apertura di un procedimento di adottabilità e la sollecita individuazione di un’idonea coppia adottante. Il neonato vede così garantito il diritto a crescere ed essere educato in famiglia e assume lo status di figlio legittimo dei genitori che lo hanno adottato.
Qualche numero sulle adozioni in Italia
Secondo le tavole del Ministero della Giustizia, nel 16% dei casi, su 1.074 domande di adottabilità di minori italiani, i genitori sono ignoti (dati 2021).
Rispetto al 2001, nel 2021 si assiste di un calo del -38,22% delle Domande di disponibilità all’adozione di minori italiani e ad una calo delle adozioni di minori italiani (-32,87 %). Tuttavia, nello stesso anno le adozioni di minori italiani sono superiori a quelle di minori stranieri (866 vs 598) in controtendenza rispetto ai vent’anni precedenti (1.290 vs 3.915).
Quest’ultimo dato potrebbe essere legato, secondo aanfa.it, a costi elevati, tempi di attesa e innalzamento dell’età media dei bambini, e ancora, secondo aibi.it, a scarsa assistenza e poche informazioni sui paesi di origine. Qualcuno ha parlato di effetto Pandemia (con relativi rallentamenti) ma nelle tavole del Ministero della Giustizia il calo è costante almeno dal 2015.
Come già riscontrato per il suicidio, quindi, anche l’adozione è un tema che in Italia non viene particolarmente indagato nelle sue sfumature, anche se ce ne sarebbe davvero bisogno. Molte domande restano senza risposta, altre non vengono proprio fatte per ignoranza sul tema. Quanti possono dire di conoscere la legge di cui sopra, ad esempio? Molte informazioni, come potete riscontrare dalle fonti in questo articolo, provengono da siti privati di associazioni, che si impegnano quotidianamente per informare sul web tutte le persone interessate.